Cinque formule diverse misurano il disagio
21/08/2017 - Povertà: una parola di sette lettere che racchiude in sé la disperazione, il senso della rinuncia e la fatica ad arrivare a fine mese. Anche calcolarla, però, non è un’impresa facile. Sono infatti almeno cinque le modalità statistiche per quantificare il numero di persone costrette a vivere in questa condizione per poter effettuare una comparazione a livello europeo. La loro metodologia di calcolo è diversa e di conseguenza anche il risultato finale, spesso con differenze significative che complicano anche la ricerca di soluzioni adeguate di contrasto.
C’è la povertà relativa, una misura standard che considera come soglia il 60% del reddito mediano dell’anno. Secondo l’ultimo aggiornamento di Eurostat con il fermo immagine al 2015, il livello più alto tra i big dell’Eurozona è stato raggiunto dalla Spagna, dove ben il 22% della popolazione è a rischio di povertà secondo questo criterio, seguita dall’Italia con una quota del 19,9 per cento. Al polo opposto è l’Olanda con l’11,6%, mentre la Francia è al 13,5% e la Germania al 16,7 per cento. La percentuale è sensibile alla variazione delle soglie che cambiano di anno in anno, come si può osservare dalla tabella a fianco, segno evidente delle profonde disuaglianze che non accennano a diminuire.
Il dato non coglie però l’impatto della crisi. Per cercare di quantificarlo un indicatore meno conosciuto, ma molto apprezzato dagli economisti, è il «tasso del rischio di povertà ancorato ai livelli di reddito del 2008», anch’esso misurato dall’Ufficio di statistica europeo. Qui, inevitabilmente, per alcuni Paesi la quota sale, con una forbice che va dal 13% di Francia e Olanda al 29,9% della Spagna. L’Italia è sempre penultima, con il 25,6% della popolazione che la crisi ha reso più vulnerabile. Rispetto al 2008 l’impatto è stato dirompente in Spagna con un balzo del 10%, ma anche nel nostro Paese dove la percentuale di povertà legata alla recessione è cresciuta di 6,7 punti.
C’è poi un terzo indicatore, quello considerato dalla Ue nell’ambito della strategia Europa 2020 per la crescita e l’occupazione. Una misurazione multidimensionale che tiene conto non solo del reddito, ma anche della “deprivazione materiale”. Quella condizione, per intenderci, che rende difficile pagare le bollette o le spese per il riscaldamento. Qui non mancano le sorprese e la posizione dell’Italia peggiora ulteriormente. Secondo l’ultima fotografia scattata da Eurostat, anch’essa riferita al 2015, nel nostro Paese il 28,7% della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale secondo questi criteri. Una condizione analoga a quella della Spagna. Rispetto al 2008 anche l’Olanda (dove però il tasso è al 16,4%, ancora una volta il più basso tra i cinque Paesi considerati) segna un aumento del numero di persone in difficoltà. A sorpresa, però, in Francia e Germania iniziano a scorgersi i primi segnali di miglioramento.
Ci sono poi gli indicatori di ciascun ufficio di statistica. Anch’essi misurano la povertà relativa, ma il dato spesso non coicide con quello di Eurostat e non può essere considerato per effettuare una comparazione. Qui la forbice va dal 22,3% della Spagna nel 2016 all’8,8% dell’Olanda. In Italia la quota è del 14%, pari a circa 8,5 milioni di persone. Il nostro Paese è infine l’unico tra quelli considerati che calcola anche il tasso di povertà assoluta. La misura è un concetto più ampio e parte da un paniere di beni e servizi che garantiscono una vita dignitosa. In questa condizione si trovano secondo l’Istat 1,6 milioni di famiglie (il 6,3% del totale) per un totale di 4,7 milioni di persone. Saranno loro i primi a rientrare nel raggio di azione del Reddito di inclusione.
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