Scandalo rimborsi Ue, i fondi anche a mogli e guardie del corpo degli euroscettici
09/03/2017 - Ciò che colpisce di più, ma forse ha una sua logica perversa intrinseca, è il fatto che nelle frodi dei parlamentari europei siano proprio i partiti euroscettici quelli più esposti in una serie di rimborsi spese ritenuti sospetti dagli uffici dell’Olaf, l’euro-bureau competente per l’anti-frode europea. Come se per gli euroscettici utilizzare in modo poco accurato i fondi europei non sia così grave come farlo nei confronti dei fondi pubblici nazionali.
Intanto però è stata aperta un’inchiesta a Strasburgo. Sotto la lente dell’Olaf, l’ufficio anti-frode europeo - un ente che ha condotto più di 1.400 inchieste dal 2010-2015 per un importo di 3 miliardi di euro da restituire alle casse del bilancio Ue - ci sono molti leader di quei partiti euroscettici che vogliono uscire al più presto dall’Unione proprio quando questa sta per compiere i 60 anni di vita.
Si va dal Front National di Marine Le Pen all’Ukip di Nigel Farage e al partito Diritto e giustizia del polacco Jaroslaw Kaczynski. L’accusa? Avrebbero male utilizzato le procedure sui rimborsi Ue. Come? Perlopiù assumendo collaboratori con soldi delle casse del Parlamento europeo che invece sono stati fatti lavorare per questioni relative al partito in Francia, Polonia o Gran Bretagna. L’inchiesta ha riguardato anche alcuni eurodeputati italiani del M5S, Forza Italia, Lega ed ex Pd. Ma si tratta solo di casi isolati. Anche il neo candidato tedesco alla cancelleria, Martin Schulz, secondo Der Spiegel e Stern dovrebbe rispondere sulla reale residenza di un suo collaboratore, Markus Engels, formalmente residente a Bruxelles mentre si sospetta che viva a Berlino. Una pratica secondo il partito Spd, citato in un servizio della tv pubblica britannica BBC, «normalmente accettata» a Bruxelles.
Il 17 febbraio 2017 l’Ansa riporta che Marine Le Pen è accusata di aver stipulato un «contratto falso» per il suo bodyguard al Parlamento europeo. Nella campagna presidenziale francese segnata dai colpi di scena Marianne e Mediapart hanno rivelato un rapporto confidenziale, trasmesso alla giustizia parigina dall’Olaf.
Secondo l’ufficio antifrode della Ue, Le Pen avrebbe stipulato al Parlamento europeo «un contratto di lavoro apparentemente falso per l’impiego fittizio del signor Thierry Légier». Non proprio un esperto di politiche comunitarie, bensì il suo fedele bodyguard personale, che la segue da sempre. Il documento di 28 pagine conferma inoltre irregolarità legate all’assistente di Le Pen, Catherine Griset, confermando l’accusa secondo cui è stata pagata con i soldi dei contribuenti europei quando invece lavorava per il partito a Nanterre, in Francia. Insomma si tratta di impiegati pagati per lavorare al Parlamento europeo che invece lavoravano in Francia.
Poi si sono aggiunte le inchieste su nuovi contratti: quello di Louis Aliot, compagno di Marine Le Pen; di Florian Philippot, ideologo e braccio destro della leader del Front National; dello stesso padre di Marine e fondatore del partito, Jean-Marie Le Pen. Pezzi da novanta.
C’è poi il filone relativo all’Ukip di Nigel Farage, leader dimissionario dopo aver centrato l’obiettivo della Brexit e grande amico del presidente americano Donald Trump. Dovrà restituire un milione di euro al Parlamento europeo per una serie di contratti, tra cui quello alla moglie Kirsten. Persone stipendiate da Strasburgo, ma invece impiegate al partito. Per l’Ukip però la questione si complica e si allarga alle Fondazioni, che percepivano fondi per sostenere la politica europea del movimento, ma che in realtà avrebbero usato il danaro per la campagna a favore della Brexit.
Jaroslaw Kaczynski, il gemello sopravvissuto e deus ex machina del governo euroscettico polacco, usava secondo i sospetti dell’Olaf la signora Bozena Mieszka-Stefanowska, assistente del deputato Tomasz Poreba e quindi pagata con fondi europei, come badante della madre scomparsa nel 2013.
Uno dei casi che concernono il partito polacco euroscettico Diritto e giustizia, oggi al governo a Varsavia, che dovrà rispondere delle accuse all’Europarlamento.
Dopo l’inchiesta pubblicata martedì 7 marzo da Repubblica sugli eurodeputati accusati di irregolarità sui rimborsi, ai danni delle casse del Parlamento europeo, fonti dello stesso Europarlamento hanno precisato alla stampa alcune circostanze riguardanti gli eletti italiani.
Le posizioni dei sei europarlamentari italiani citati nell’articolo del quotidiano romano sono molto variegate e differenziate: in alcuni casi (Lara Comi, Riccardo Nencini) sono state già chiarite da tempo; in altri episodi (Mario Borghezio, Laura Agea, Daniela Aiuto) sono ancora in corso gli accertamenti da parte dei servizi finanziari del Parlamento di Strasburgo, mentre sulla vicenda di Antonio Panzeri è ancora pendente un ricorso dell’eurodeputato alla Corte di Giustizia europea.
Ma andiamo con ordine per capire la intricata vicenda. Per quanto concerne Lara Comi (Forza Italia), le fonti del Parlamento europeo hanno confermato quanto lei stessa ha spiegato in un comunicato alla stampa il 7 marzo: e cioè che fino al 2009 non c’era nessun divieto di impiegare come assistenti i parenti stretti dell’europarlamentare. Dopo essere stata eletta, nel 2009, la Comi aveva preso come assistente la madre, Luisa Costa, male interpretando una deroga dello statuto dei deputati europei che proprio con l’inizio di quella legislatura aveva introdotto la nuova norma contro l’assunzione di coniugi, partner stabili, genitori, figli, fratelli e sorelle degli eletti.
Era comunque previsto un periodo di transizione, fino al 2014, in cui erano esentati dal divieto gli assistenti assunti durante la legislazione precedente. La deroga, dunque, c’era, ma non poteva essere applicata a persone impiegate dopo le elezioni del 2009. Lara Comi, comunque, sta restituendo alle casse dell’Europarlamento, con trattenute mensili sul proprio compenso, i 126.000 euro corrisposti erroneamente alla madre.
Per Riccardo Nencini (Pd), le somme sotto contestazione a seguito di un’indagine del 2006 dell’Olaf riguardavano irregolarità nelle spese di viaggio (46.550,88 euro) e nel pagamento degli assistenti (409.352,16 euro), per un totale di 455.903,04 euro.
Con una sentenza del 13 novembre 2014 (caso C 447/13 P e caso T 560/10) la Corte europea di Giustizia, dopo un ricorso di Nencini, ha però annullato le decisioni dell’ottobre 2010 del Segretario generale del Parlamento europeo e dei suoi servizi finanziari di chiedere il rimborso di quella cifra, perché la procedura era iniziata dopo la scadenza del periodo in cui poteva essere contestata l’infrazione. Il Parlamento europeo è stato anche condannato a pagare le proprie spese legali e tre quarti di quelle sostenute da Nencini per l’appello.
I fatti relativi a Mario Borghezio (Lega Nord) e Laura Agea (M5S) sono simili: in entrambi i casi, gli eurodeputati avevano assunto come assistenti delle persone che svolgevano contemporaneamente un’altra attività. In linea di principio, questo non è vietato dalle norme in vigore, ma i servizi dell’Europarlamento possono chiedere le prove che gli assistenti abbiano il tempo e siano effettivamente in grado di svolgere le attività per cui sono remunerati. Ed è quello che è avvenuto sia per l’assistente di Borghezio nella legislatura 2009-2014, Massimiliano Bastoni, che era anche consigliere comunale a Milano, che per l’imprenditore assunto da Laura Agea in questa legislatura. Le verifiche di servizi del Parlamento europeo sono in corso, e per ora, in entrambi i casi, non è possibile trarre conclusioni.
Più insolita infine è la vicenda di Daniela Aiuto: l’europarlamentare del M5S ha utilizzato rimborsi della cosiddetta “general allowance” per saldare la fatture di alcuni report sul turismo commissionati a consulenti esterni, studi che sono risultati poi copiati da pubblicazioni già esistenti tra cui Wikipedia. In questo episodio, hanno puntualizzato le fonti del Parlamento europeo, si deve ancora stabilire se la europarlamentare Aiuto sia direttamente responsabile del plagio, e dunque della frode, o se invece - com’è probabile - ne sia stata la vittima. L’eurodeputata del M5S sta collaborando con i servizi del Parlamento europeo e fornendo rendicontazioni proprio per dimostrare di essere stata raggirata dai suoi consulenti, cioè di essere parte lesa nella vicenda.
Molto più complicato appare, infine, il caso di Antonio Panzeri (eletto nel Pd, ora Mpd), per il quale è ancora pendente un ricorso dell’eurodeputato presso la Corte europea di Giustizia. La vicenda riguarda la legislatura 2004-2009, e il contratto di prestazione di servizi di assistenza parlamentare stipulato da Panzeri nel 2004 con l’associazione “Milano Più Europa”.
Il 19 luglio 2016, un’ordinanza del Tribunale di primo grado dell’Ue (caso T 677/15) aveva respinto un primo ricorso di Panzeri contro la richiesta del Parlamento europeo di rimborsare la somma di 83.764,34 euro, indebitamente percepita dall’associazione incaricata dell’assistenza parlamentare. L’ordinanza lo aveva condannato a pagare gli 83.764 euro, e a sostenere anche le spese legali della Commissione europea ma non quelle del Parlamento europeo (entrambe le istituzioni avevano sollevato un’eccezione di irricevibilità contro il ricorso di Panzeri).
La vicenda era iniziata con un’indagine sempre dell’Olaf avviata a novembre 2009. Nel luglio 2012, il Segretario Generale del Parlamento europeo notificava a Panzeri che, in base alle prove fornite dall’Olaf, il contratto con “Milano Più Europa” « violava la regolamentazione riguardante le spese e le indennità degli eurodeputati», e che era stato indebitamente corrisposto all’associazione un importo 125.774,34 euro. Nel settembre 2015, considerati i rimborsi già effettuati e la documentazione fornita da Panzeri, il Parlamento europeo aveva ridotto la richiesta di rimborso a 83.764,34 euro. Anche in questo caso, dicono le fonti del Parlamento europeo sarà possibile trarre delle conclusioni definitive solo dopo la sentenza d’appello della Corte europea di Giustizia.
In rilievo
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