In Bce gli istituti si giocano tutto sul «Npe ratio»
20/02/2017 - Si dice che a Francoforte, nella sede della Vigilanza europea, sia oramai la prima, se non l’unica cosa, che viene scrutata nei bilanci delle banche italiane: è l’Npe ratio, ovvero il rapporto tra crediti deteriorati (non performing exposure) e il totale dei crediti erogati. Dove per deteriorati si intende la somma di tutti i crediti malati: sofferenze, inadampienze probabili (unlikely to pay) e scaduti (past due.
Con un ammontare lordo di circa 330 miliardi di Npe, il nostro paese è del resto uno dei malati gravi in Europa sotto questo profilo. L’Npe ratio a metà 2016 era pari al 21,4% in termini lordi, più di quattro volte di quanto valeva nel 2008 (pari al 4,9%). Peggio di noi fanno solamente Grecia, Portogallo e Cipro. Ben diverse sono le cose nel resto d’Europa, la cui media si aggira attorno al 5 per cento.
L’Italia sta facendo molto per migliorare le cose, come dimostra lo sforzo in termini di cessioni in rampa di lancio. Il picco degli Npe (pari a 360 miliardi del 2015) è alle spalle. Ma a Francoforte non basta. Reputa il fardello dei crediti malati del nostro paese ancora elevato, tanto da rappresentare un rischio sistemico per tutta Europa, soprattutto qualora si ripresentasse una nuova crisi. Il tema, a livello europeo, è stato inserito tra le priorità della Vigilanza per il 2017, sulla scia di quanto avvenuto anche nel 2016.
Ecco perché gli ispettori hanno dato un’accelerazione al dossier Npe. E a molti istituti italiani, come agli altri istituti europei caratterizzati dallo stesso problema, a valle del processo Srep del 2016 è stato chiesto di inviare entro fine febbraio un piano dettagliato di rientro sul tema dei non performing. Nel documento, ogni banca deve chiarire come intende far scendere il proprio Npe ratio al livello target che la stessa Bce gli ha assegnato. Un numero, quest’ultimo, che cambia da banca a banca. E che è frutto di un confronto incrociato con altri competitor europei di dimensioni paragonabili.
Nel corso degli ultimi mesi all’interno degli istituti italiani si è lavorato in maniera frenetica sulla road map da proporre a Bce. E qualcuno si è mosso in anticipo, così da dare una prima indicazione al mercato. Intesa Sanpaolo, ad esempio, in occasione della presentazione dei conti 2016 ha comunicato di voler portare l’Npe ratio lordo dall’attuale 14,7% al 10,5% nel 2019, dato che atterra al 6% in termini netti. Stesso sforzo da parte di UniCredit che, complice la smaltimento in blocco di 17 miliardi di Npl nell’ambito del progetto Fino, punta a dimezzare l’Npe ratio dall’attuale 15,1% all’8,4%, il 4% netto, nel giro di tre anni. C’è poi chi, come Banco e Bpm, si sono viste subordinare l’ok alla fusione alla rapida riduzione dell’indice. L’Npe ratio deve scendere al 18% in termini lordi e 11% in termini netti (rispettivamente dal 24,8% e dal 15,7% attuali) entro il 2019. Veneto Banca e Vicenza, da parte loro, a quanto risulta al Sole 24Ore hanno un obiettivo del 18% al 2019.
L’altra faccia della medaglia delle cessioni, soprattutto se effettuate troppo velocemente, è che queste possano “fare male” alle banche, causando minusvalenze che possono incidere sul capitale. Non è un caso che la stessa Bankitalia invochi strategie alternative alla vendita di portafogli, come la gestione interna. La differenza, tra la svendita di un credito a un fondo e la lavorazione nel corso del tempo, può essere decisiva. Basti pensare che tra il 2006 e il 2015 il tasso di recupero dei crediti in via ordinaria è stato del 47% contro il 23% guadagnato con le cessioni.
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