Theresa May promette al mondo una «hard Brexit»
17/01/2017 - Cerchiamo una nuova partnership fra un Gran Bretagna globale, indipendente e sovrana e i nostri amici dell’Ue. Non vogliamo adesioni parziali, o qualsiasi cosa che ci lasci metà dentro e metà fuori». Così Theresa May su Brexit. Non lo scandisce sillaba per sillaba, ma lo dice senza più timore di equivoci: Londra intende riscrivere la storia, librandosi in caduta libera rispetto alla sua avventura comunitaria. Global Britain è la nuova parola d’ordine del premier Theresa May, un passo in più verso quel “no” anche al mercato interno che sembra ormai inevitabile, ancorché non pronunciato con nettezza. Forse lo fa oggi, completando le anticipazioni del discorso che il premier britannico ha diffuso ieri sera con le «dodici priorità del negoziato britannico». I dettagli non si conoscono ma sul fronte dell’immigrazione europea potrebbe prendere forma un sistema di permessi di lavoro per gli stranieri a più velocità, con agevolazioni per i cittadini Ue.
Ipotesi che rotolano al termine di una giornata che ha visto l’Unione europea scomporsi sotto i colpi di una riemergente asse anglo-americano. È la lettura più evidente di un week-end che cambia la prospettiva della Brexit con l’arrivo in campo di Donald Trump e la silhouette di un divorzio euro-inglese più duro di quanto fosse legittimo sperare. I mercati non hanno dubbi e ieri, prima ancora della diffusione delle note di Downing street, hanno accelerato la vendita della sterlina che ha perduto l’1,5% sul dollaro andando sotto l’1,20 per la prima volta dopo il flash crash dell’ottobre scorso. Eccezion fatta per quel drammatico scivolone il pound ha toccato ieri il nadir dal maggio del 1985. Sintomo di un’economia che s’indebolisce? Il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney sembra non avere più dubbi e nonostante dati che da giugno ad oggi indicano la forza dell’economia britannica (ieri è stato il Fmi a ribadirlo) immagina venti avversi. «La crescita sostenuta dai consumi tende a rallentare e a durare meno», ha detto alla London school of Economics senza sbilanciarsi sul destino dei tassi che si consideravano in imminente crescita.
Ad agire come detonatori sul pound sono stati però tre eventi precedenti alle parole del governatore: l’intervista di Donald Trump al gruppo Times; il warning del Cancelliere Philip Hammond ai partner; e infine gli spifferi che da giorni circolano sul discorso che oggi Theresa May pronuncia a Lancaster House.
Il presidente-eletto americano ha incenerito il commento del suo predecessore Barack Obama che fu esplicito nel collocare Londra alla fine della coda delle nazioni che aspirano a un accordo commerciale esclusivo con Washington. L’amministrazione Trump ha ribaltato il tavolo dei democratici, dicendosi pronta – secondo il pensiero che il presidente in waiting ha regalato a Michael Gove l’ex ministro Tory euroscettico tornato a scrivere sul quotidiano di Rupert Murdoch - ad agevolare la Gran Bretagna con accordi rapidi perchè la «Brexit è una gran cosa». Non solo Brexit – ovvero uscita dall’Unione – ma anche uscita dal mercato interno e dall’unione doganale e magari senza accordi di transizione. Una dinamica che implica una spaccatura verticale con l’Ue, tanto simile a quella che Theresa May sta già tracciando.
È probabile che le cose prendano questa piega e oggi ne sapremo, forse, di più. Le fanfare dei grandi eventi hanno anticipato lo speech che la signora tiene a Lancaster House lasciando trapelare la fermezza di Theresa May su due capitoli del negoziato: pieno controllo delle frontiere e quindi dell’immigrazione intraeuropea; primato delle corti britanniche su quelle europee. Sono la linea Maginot di una Gran Bretagna che non sta cercando membership a mezzo servizio punta tutto su un exit hard. Salvo l’improbabile rinculare dell’Unione dai propri principi fondativi, scenario quantomai estremo.Fonti di Downing street continuano a ripetere che è «nell’interesse dell’Unione «evitare la crash exit» e per questo vorrebbero che a farne richiesta fossero i Ventisette. Oggi Theresa May sarà più esplicita.
C’è, tuttavia, molto posizionamento negoziale in queste ore di attesa per il verdetto della Suprema Corte anche se è convinzione diffusa che sarà confermato quello dell’Alta Corte che diede al Parlamento un ruolo centrale nell’iter di recesso dall’Ue. E sotto la stessa voce – riscaldamento in vista della trattativa – molti leggono l’altolà all’Ue del Cancelliere Philip Hammond, una colomba fra i falchi della May. Nell’intervista alla Welt ha minacciato dumping fiscale con Londra pronta a cambiare il proprio modello di sviluppo. «Se non avremo accesso al mercato Ue...noi britannici non staremo a terra feriti, faremo le riforme necessarie e torneremo ad essere competitivi», ha detto lasciano intendere che sulla corporate tax Londra è pronta ad andare molto in là. E forse non solo sulla tasse alle imprese – già al 20% e destinata, salvo ripensamenti, a calare al 17% - ma sull’impianto complessivo del quadro fiscale che Londra adotterà.
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